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CATECHISMO DEGLI ADULTI

CATECHISMO DEGLI ADULTI
INDICE TEMATICO
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Catechismo degli Adulti


Liberazione dalla sofferenza
[130]  Dando compimento all’attesa, Gesù annuncia che Dio, nella sua nuova 3-73.pnge definitiva manifestazione, si mette a fianco degli oppressi, degli affamati, dei malati, degli afflitti, dei perseguitati e comincia a liberarli.
Rendendo visibile con il suo comportamento l’agire stesso di Dio, il Maestro va incontro a ogni miseria spirituale e materiale. Nutre con la parola e con il pane le folle stanche e senza guida, disprezzate dai gruppi religiosi osservanti. Si commuove di fronte ai malati, che gli si accalcano intorno, e li guarisce. Avvicina varie categorie di emarginati, i bambini, le donne, i lebbrosi, i peccatori segnati a dito, come i pubblicani e le prostitute, i pagani. Tende la mano a chiunque è umiliato dal peccato, dalla sofferenza, dal disprezzo altrui.
Non si limita a operare in prima persona. Coinvolge i discepoli nella sua missione a servizio del Regno; esige da tutti un serio impegno, mediante le opere di misericordia, per la liberazione, sia pure parziale e provvisoria, da ogni forma di male, fino a quando non verrà la gloria del compimento totale.
CdA, 712
CONFRONTAVAI
CdA 854-856
CONFRONTAVAI
Segni di Dio
[189] I miracoli annunciano e inaugurano il regno di Dio. C’è chi si chiede se abbia ancora senso parlare di miracoli, se essi siano oggi di aiuto alla fede o piuttosto di ostacolo, in quanto estranei alla mentalità scientifica dell’uomo moderno. È essenziale coglierne il significato.
Nell’Antico Testamento gli eventi prodigiosi dell’esodo e in genere i miracoli compiuti da Dio e dai suoi inviati attestano la presenza salvifica del Signore nella storia del suo popolo. Nel Nuovo Testamento questi fatti straordinari sono chiamati «miracoli (opere potenti), prodigi e segni» (At 2,22): opere potenti, perché manifestano la potenza creatrice di Dio; prodigi, perché sono avvenimenti straordinari e inspiegabili, che destano l’ammirazione degli uomini; segni, perché nel contesto della predicazione evangelica trasmettono un preciso significato, la venuta del Regno. Dei tre termini il più adeguato è proprio l’ultimo.
I miracoli sono gesti con cui Dio ci parla. Si rivolgono sempre alle persone, o perché le riguardano direttamente, come le guarigioni di malati, o almeno perché recano loro qualche beneficio materiale e spirituale, come accade nella moltiplicazione dei pani e in altre trasformazioni della natura. E per costituire il segno, non conta solo il fatto straordinario, ma anche il modo e il contesto in cui avviene.
Umiltà e autorità di Gesù
[190]  Gesù di Nàzaret mostra il suo stile inconfondibile anche nel fare miracoli. Coerente con la sua missione di Messia-Servo, fermo nel respingere le tentazioni della ricchezza, del successo e del dominio, non si serve mai del miracolo per il proprio interesse personale, ad esempio per alleviare la propria fame, sete, stanchezza. Rifiuta le richieste di miracoli spettacolari, che costringano a credere. Proibisce ai malati, che ha risanato, di fare pubblicità. Rimprovera chi con il miracolo vorrebbe punire i recalcitranti e i ribelli
nota
Cf. Lc 9,54-55.
, come talvolta era avvenuto nell’Antico Testamento. Si difende alla maniera dei deboli, nascondendosi davanti ai nemici. Non scende dalla croce, quando nell’ora suprema gli avversari lo sfidano con ingiuriosa ironia: «Ha salvato altri, non può salvare se stesso! Il Cristo, il re d’Israele, scenda ora dalla croce, perché vediamo e crediamo» (Mc 15,31-32).
Gesù come insegna con autorità, così compie i miracoli con autorità, a nome proprio: «Io ti dico» (Mc 5,41); «Ti ordino» (Mc 2,11). Agisce con naturalezza, senza sforzo e senza alcuna preparazione; gli basta una semplice parola. Il risultato è istantaneo, sebbene i casi siano diversissimi: guarigione di lebbrosi, ciechi, sordomuti, paralitici, epilettici; risurrezione di morti; moltiplicazione di pani e pesci, trasformazione dell’acqua in vino, una pesca miracolosa, una tempesta sedata. Alla singolarissima autorità si unisce una sorprendente umanità e tenerezza: a volte interviene senza essere richiesto, per compassione; a volte non esita a infrangere le prescrizioni della legge, guarendo in giorno di sabato o toccando i lebbrosi e i morti.
CCC, 447
Regno di Dio e signoria di Gesù
[422] Gesù, mentre predicava il vangelo del Regno, perdonava i peccatori e guariva i malati: indicava così che il regno di Dio era già presente come germe di una salvezza completa, spirituale e corporea.
I discepoli, da parte loro, proclamano che Dio ha risuscitato Gesù, il Crocifisso, e lo «ha costituito Signore e Cristo» (At 2,36). Il cuore del loro messaggio e della fede cristiana è questo: Gesù è morto, è risorto, «è il Signore» (Rm 10,9). Ormai il regno del Padre si identifica con la signoria del Risorto: perciò Filippo in Samarìa reca «la buona novella del regno di Dio e del nome di Gesù Cristo» (At 8,12) e Paolo a Roma incontra la gente «annunziando il regno di Dio e insegnando le cose riguardanti il Signore Gesù Cristo» (At 28,31).
Come quella del Maestro anche la predicazione dei discepoli si mostra efficace, operando conversioni e guarigioni in gran numero. I miracoli, uniti all’annuncio del vangelo, manifestano lo Spirito Santo, dato alla Chiesa come primizia della salvezza totale; nello stesso tempo indicano che Gesù è veramente risorto e continua ancora a operare attraverso i suoi inviati.
CdA, 208
CONFRONTAVAI
CdA 211
CONFRONTAVAI
CdA 262
CONFRONTAVAI
L’origine del male
[372] Tuttavia il male ci investe da ogni parte, in molte forme: disgrazie, violenze, malattie, miseria, oppressione, ingiustizia, solitudine, morte. Non possiamo evitare la domanda: da che cosa dipende questa infelice situazione? perché l’uomo è soggetto alla sofferenza?
Molti mali derivano senz’altro dai limiti naturali, dall’inserimento nel mondo. Partecipando a un processo evolutivo globale, l’uomo nasce, si trasforma e muore come gli altri esseri della natura. Può ricevere la vita solo a frammenti.
La precarietà della condizione creaturale viene poi aggravata da innumerevoli colpe personali, che procurano più o meno direttamente una infinità di guai, a sé e agli altri: basti ricordare i danni recati alla salute, le storture della convivenza sociale, le guerre.
[373] Questa solidarietà negativa non solo inclina a commettere i peccati personali, che causano molte sofferenze, ma impedisce di integrare nella vita, in maniera significativa, i dolori che provengono dagli altri uomini e dai limiti inerenti alla natura. Molte volte, più che il soffrire pesa il soffrire inutilmente, senza un significato. L’universale alienazione da Dio priva l’animo della forza e della gioia, che deriverebbero da un’intensa comunione con lui e sarebbero capaci di riempire e trasfigurare le stesse esperienze dolorose.
La cura dei malati
[712]  Profonda è l’unità di spirito e corpo: il disordine del peccato danneggia indirettamente il fisico; viceversa la malattia 17-344.pngdell’organismo colpisce anche lo spirito, in quanto causa sofferenza, senso di impotenza, pericolo di morte, solitudine e angoscia. Il malato ha particolarmente bisogno di sincera solidarietà, che lo aiuti a superare la tentazione di abbattersi, di chiudersi nei confronti degli altri, di ribellarsi a Dio.
[713]  In ogni epoca, «animata da quella carità con cui ci ha amato Dio,... la Chiesa attraverso i suoi figli si unisce agli uomini di qualsiasi condizione, ma soprattutto ai poveri e ai sofferenti, e si prodiga volentieri per loro»
nota
Concilio Vaticano II, Ad gentes, 12.
. È una storia bellissima, malgrado gli inevitabili limiti umani: strutture ospedaliere, ordini religiosi, associazioni caritative, pastorale degli infermi, dedizione eroica di santi, tra i quali ricordiamo san Camillo de’ Lellis, san Giovanni di Dio, san Vincenzo de’ Paoli, san Giuseppe Cottolengo, il medico san Giuseppe Moscati. Oggi urge qualificare in senso cristiano gli operatori sanitari e promuovere il volontariato, per sottrarre i malati e gli anziani all’isolamento, in cui troppo spesso vengono a trovarsi.
L’unzione e la sua efficacia salvifica
[714]  Secondo una prassi in atto fin dalle origini apostoliche e attestata dalla lettera di Giacomo, la cura dei malati da parte della Chiesa culmina in un rito speciale di natura sacramentale, l’unzione degli infermi: «Chi è malato, chiami a sé i presbìteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati» (Gc 5,14-15). Questo testo presenta l’unzione dei malati come un evento di guarigione totale, con effetti spirituali e corporali.
Il sacramento è rimasto sempre vivo nella tradizione liturgica, sia in oriente che in occidente, ma con molte variazioni disciplinari e rituali. Il ministro è il sacerdote
nota
Cf. Concilio di Firenze, Bolla di unione degli Armeni “Exsultate Deo” - DS 1325.
. Possono ricevere il sacramento i fedeli il cui stato di salute risulta seriamente compromesso per malattia o vecchiaia
nota
Cf. Sacramento dell’unzione e cura pastorale degli infermi, Premesse, 8.
. Il conferimento del sacramento si può ripetere quando ve ne sia ragione. Non bisogna riservarlo ai soli moribondi né, d’altra parte, darlo indiscriminatamente a tutti gli anziani, compresi quelli in piena salute e vitalità. Il rito prevede che il ministro del sacramento applichi l’olio sulla fronte e sulle mani, perché l’uomo pensa e agisce, e pronunzi al tempo stesso la seguente formula: «Per questa santa unzione e la sua piissima misericordia ti aiuti il Signore con la grazia dello Spirito Santo. E, liberandoti dai peccati ti salvi e nella sua bontà ti sollevi»
nota
Sacramento dell’unzione e cura pastorale degli infermi, Premesse, 78.
. Particolarmente utili sono le celebrazioni comunitarie: sia per i malati, che avvertono intorno a sé la preghiera e l’amicizia della comunità, sia per la comunità, che riceve dai malati una testimonianza di fede, di generosità nel sacrificio e di libertà interiore nei confronti delle cose terrene, ed è oltretutto bisognosa di essere aiutata a superare la mentalità che spinge a celebrare l’unzione all’ultimo momento, in fretta e quasi di nascosto.
[715]  Si tratta di una preghiera umile e fiduciosa, che non ha niente a che fare con la magia: la Chiesa «affida gli ammalati al Signore sofferente e glorificato, perché egli conceda loro sollievo e salvezza; e li esorta ad associarsi spontaneamente alla passione e alla morte di Cristo, per cooperare al bene del popolo di Dio»
nota
Concilio Vaticano II, Lumen gentium, 11.
. Nel momento in cui le nostre forze vengono meno, il sacramento, con il dono dello Spirito di consolazione, ci conforma a Cristo sofferente e glorioso, perché con lui offriamo noi stessi al Padre; rafforza la nostra fede e ci dà sollievo spirituale; ci purifica dai disordini interiori lasciati dal peccato, proseguendo il rinnovamento iniziato con il sacramento della penitenza; ci libera dai peccati stessi nel caso che sia impossibile confessarsi; infine, se così dispone la Provvidenza, può anche procurarci un miglioramento della salute fisica. La potenza del Signore risorto e del suo Spirito si manifesta sia concedendo ad alcuni la grazia della guarigione fisica sia, e ancor più, concedendo a molti altri la grazia di dare senso alla malattia.
CdA, 1020-1023
CONFRONTAVAI
Il viatico
[716]  Quando la situazione di malattia è particolarmente grave, tanto da far prevedere la morte, è prassi antichissima della Chiesa unire alla celebrazione dell’unzione il conferimento della comunione eucaristica in forma di “viatico”. Cibo per il viaggio, il pane eucaristico sostiene il cristiano nel passaggio da questo mondo al Padre e lo munisce della garanzia della risurrezione, secondo la parola del Signore: «Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno» (Gv 6,54). È perciò un atto di vero amore confortare i propri cari con questo sacramento, l’ultimo prima che essi vedano Dio al di là dei segni sacramentali e partecipino alla gioia ineffabile del convito eterno. D’altra parte il morente, ricevendo il viatico, testimonia in modo significativo la fede nella vita eterna, di cui il cristiano è erede dal giorno del suo battesimo.
CdA, 1189
CONFRONTAVAI
Rifiuto della sofferenza
[1020] Fa parte della mentalità di chi è cresciuto nella civiltà del benessere rivendicare il diritto alla felicità, a un’elevata qualità della vita. Non si deve più soffrire. Se capita una malattia, ci deve essere una soluzione; la scienza deve trovarla. Si fa eccessivo consumo di farmaci; si ricorre con ossessiva frequenza agli esami clinici. Basta una qualsiasi contrarietà a rendere nervosi e tristi. Timore ed ansia fanno diradare le relazioni sociali intorno al malato grave e alla sua famiglia. Si arriva a dichiarare che accettare la sofferenza è immorale. Non si è capaci di dare un senso a questa esperienza umana fondamentale. Ma quale senso può avere la sofferenza?
Pazienza cristiana
[1021]  Il cristiano guarda realisticamente alla malattia e alla morte 26-488.png come a un male; anzi vede in queste tragiche realtà un’alienazione, carica di tutta la violenza del Maligno e capace di portare alla chiusura in se stessi, alla ribellione e alla disperazione. Non considera però il dolore una pura perdita, non tenta fughe illusorie, né si limita a subirlo fatalisticamente. Messo alle strette dalla sofferenza, continua a credere nella vita e nel suo valore. «Non è affatto un dolore la tempesta dei mali presenti per coloro che ripongono la loro fiducia nei beni futuri. Per questo non ci turbano le avversità, né ci piegano»
nota
San Cipriano di Cartagine, A Demetriano, 18.
.
La pazienza è una lotta piena di fiducia. Da una parte il cristiano mette in opera tutte le risorse per eliminare la malattia, per liberare se stesso e gli altri. Dall’altra trova nella sofferenza un’occasione privilegiata di crescere in umanità e di realizzarsi a un livello più alto. Se non gli è possibile guarire, cerca di vivere ugualmente; non si limita a sopravvivere. Affronta la situazione con coraggio, dignità e serenità; mantiene la speranza, il gusto dell’amicizia e delle cose belle; confida nella misteriosa fecondità del suo atteggiamento.
Sperimentando nella malattia la propria impotenza, l’uomo di fede riconosce di essere radicalmente bisognoso di salvezza. Si accetta come creatura povera e limitata. Si affida totalmente a Dio. Imita Gesù Cristo e lo sente personalmente vicino. Abbracciando la croce, sa di abbracciare il Crocifisso. Unito a lui, diventa segno efficace della sua presenza e strumento di salvezza per gli altri
nota
Cf. Col 1,24.
: «Ogni uomo, nella sua sofferenza, può diventare partecipe della sofferenza redentiva di Cristo»
nota
Giovanni Paolo II, Salvifici doloris, 19.
.
CdA, 130-132
CONFRONTAVAI
CdA 373-374
CONFRONTAVAI
CdA 855-856
CONFRONTAVAI
Alcune attenzioni
[1022]  La sofferenza costituisce una sfida a crescere nella fede e nell’amore; ne è la verifica più sicura: «L’amore vero e puro si dimostra fra mille pene... Chi vuol l’amore, cerchi il patire»
nota
Santa Veronica Giuliani, Diario, 26.12.1694.
. Una volta scoperta questa grande possibilità, si può essere perfino «afflitti, ma sempre lieti» (2Cor 6,10). Così il male è vinto dall’interno, sperimentandolo. Nell’apparente fallimento ci realizziamo più che mai. Occorre però assumere consapevolmente la propria situazione. Per questo in linea di principio è bene che un malato conosca la dura verità della sua malattia. Magari la prudenza consiglierà di manifestarla gradualmente e allusivamente, cercando di prevenire il più possibile il pericolo di scoraggiamento e di depressione.
[1023] Nella prospettiva di un rispetto incondizionato per la persona e di una valorizzazione della stessa sofferenza si collocano alcune particolari attenzioni. I disabili devono essere accolti e inseriti il più possibile nel vivo delle relazioni familiari, ecclesiali e sociali. Gli anziani vanno apprezzati per la loro esperienza e aiutati con un’adeguata assistenza e con iniziative capaci di suscitare il loro interesse. Meritano grande considerazione le professioni degli operatori sanitari, compiute in spirito di servizio, l’impegno per umanizzare le istituzioni, la generosa attività del volontariato, ogni presenza amica accanto a chi soffre.
[1024] Il cristiano apprezza e ama la vita propria e degli altri, anche quando è sfigurata dalla sofferenza e appare assurda. Anzi, nella povertà e nella debolezza riconosce una speciale presenza di Cristo e una possibilità preziosa di crescita e di fecondità spirituale.
[1023] Nella prospettiva di un rispetto incondizionato per la persona e di una valorizzazione della stessa sofferenza si collocano alcune particolari attenzioni. I disabili devono essere accolti e inseriti il più possibile nel vivo delle relazioni familiari, ecclesiali e sociali. Gli anziani vanno apprezzati per la loro esperienza e aiutati con un’adeguata assistenza e con iniziative capaci di suscitare il loro interesse. Meritano grande considerazione le professioni degli operatori sanitari, compiute in spirito di servizio, l’impegno per umanizzare le istituzioni, la generosa attività del volontariato, ogni presenza amica accanto a chi soffre.
Eutanasia
[1033] Disordine delittuoso è anche l’eutanasia vera e propria, che consiste nella soppressione indolore, direttamente voluta, di una vita giudicata non più degna di essere vissuta, di solito a motivo di qualche malattia dolorosa e inguaribile. Un eventuale sentimento soggettivo di pietà in colui che la compie non potrebbe cambiarne la qualità morale negativa.
Terapia del dolore
[1034] Non vanno però confuse con l’eutanasia le cure terminali che mirano ad alleviare il dolore, anche se indirettamente possono a volte abbreviare la vita. Esse sono lecite per motivi proporzionati. Non bisogna comunque dimenticare che l’aiuto migliore per i morenti rimane l’accompagnamento personale, pieno di carità e di speranza. Un volto e una mano amica non possono essere surrogati dalle apparecchiature sofisticate.
Accanimento terapeutico
[1035] Neppure la rinuncia al cosiddetto “accanimento terapeutico” va confusa con l’eutanasia. Le cure enormemente costose e senza consistenti vantaggi per il paziente vengono omesse lecitamente e perfino doverosamente. Il malato ha diritto a morire con dignità.
[1069] È necessario riscoprire e valorizzare pienamente il ruolo della famiglia, comunità intermedia tra individuo e società. Occorre sollecitare la sua responsabilità e sostenere il suo impegno specialmente in campo educativo e assistenziale. La politica dovrebbe rivolgerle un’attenzione privilegiata e servirla con iniziative di sostegno e di integrazione. Oggi gli interventi di maggior rilievo potrebbero avere i seguenti contenuti: tutela della vita e sostegno alla maternità, aiuto economico alle famiglie con figli, agevolazioni per la casa, organizzazione del lavoro rispettosa delle esigenze della vita familiare, equità fiscale in base ai carichi familiari, organizzazione della scuola in modo che le famiglie abbiano effettiva libertà di scelta e possibilità di partecipazione, strutturazione dei servizi assistenziali tale da coinvolgere le famiglie specialmente riguardo ai disabili e agli anziani. Valorizzare la famiglia significa prevenire molti mali della società. Una politica per la famiglia è una politica per la libertà nella solidarietà.
La morte nella nostra cultura
[1185] Da sempre la morte è guardata con rispetto e timore, perché radicalmente contraria all’istinto di conservazione. Oggi, come fenomeno generale, è oggetto di attenzione e di curiosità; a volte la si banalizza, mostrandola crudamente per televisione. Si evita invece come un tabù il discorso sulla propria morte e quindi anche la domanda sul senso della propria vita. Come se non ci riguardasse da vicino!
Quanto all’aldilà, circolano molti dubbi. Nel nostro paese numerose persone, pur credendo in Dio, dichiarano di non credere nella sopravvivenza, nella risurrezione, nel paradiso, nell’inferno. Ci si preoccupa più della sofferenza, che di solito precede la morte, che non delle realtà che vengono dopo di essa. Si considera addirittura preferibile una morte improvvisa, non consapevole. Invece il vero cristiano desidera innanzitutto rendere preziosa la propria morte.
Apparente fallimento
[1186]  Ma ha un senso la morte, o meglio l’uomo che muore? All’apparenza sembrerebbe di no. L’uomo è tutto un desiderio di vivere e con tutto se stesso rifiuta la morte, ma essa si avvicina inesorabile. La caducità ci appartiene per natura. In un certo senso si comincia a morire quando si comincia a vivere, e si finisce di morire quando si finisce di vivere: le cellule dell’organismo si invecchiano, si perdono e non tutte vengono reintegrate; le esperienze personali si consumano in fretta. «L’uomo, nato di donna, breve di giorni e sazio di inquietudine, come un fiore spunta e avvizzisce, fugge come l’ombra e mai si ferma» (Gb 14,1-2). Prima o poi, improvvisa o preceduta da intensa sofferenza, arriva la morte. La persona sembra svanire nel nulla. Il desiderio insopprimibile di vivere sembra votato al fallimento. Di qui senso di smarrimento e di impotenza, angoscia. «Sono prigioniero senza scampo; si consumano i miei occhi nel patire» (Sal 88,9-10).
CdA, 13-15
CONFRONTAVAI
Conseguenza del peccato
[1187]  Anche se la caducità è naturale, la morte, vissuta come solitudine angosciosa e impotente, non rientra nel disegno della creazione: «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi» (Sap 1,13). Appartiene invece alla condizione storica dell’umanità peccatrice, alienata dalla originaria comunione con Dio: «il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte» (Rm 5,12). Da qui derivano il suo carattere di violenza e di minaccia, il suo pungiglione velenoso.
CdA, 373-374
CONFRONTAVAI
La morte di Gesù
[1188]  Gesù, pur essendo senza peccato, ha preso su di sé la comune condizione umana. Ha provato «paura e angoscia» (Mc 14,33), «con forti grida e lacrime» (Eb 5,7). Ma si è abbandonato con fiducia alla volontà del Padre, ha offerto tutto se stesso per il bene degli uomini. Ha fatto del suo morire un atto personale pieno di senso. La risurrezione ha rivelato la fecondità della sua dedizione e ha dato solido fondamento alla speranza dei credenti. La sua testimonianza li provoca a seguirlo, fiduciosi nel Padre onnipotente e misericordioso, pieni di amore per i fratelli, pronti a credere nella vita fin dentro le tenebre della morte
CdA, 237-239
CONFRONTAVAI
La morte del cristiano
[1189]  Il cristiano teme la morte come tutti gli uomini, come Gesù stesso. La fede non lo libera dalla condizione mortale. Tuttavia sa di non essere più solo. Obbediente all’ultima chiamata del Padre, associato a Cristo crocifisso e risorto, confortato dallo Spirito Santo, può vincere l’angoscia, a volte perfino cambiarla in gioia. Può esclamare con l’apostolo Paolo: «La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria?» (1Cor 15,54-55). Allora la morte assume il significato di un supremo atto di fiducia nella vita e di amore a Dio e a tutti gli uomini.
Il morente è una persona e il morire un atto personale, non solo un fatto biologico. Esige soprattutto una compagnia amica, il sostegno dell’altrui fede, speranza e carità. L’ambiente più idoneo per morire, come per nascere, è la famiglia, non l’ospedale o l’ospizio.