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CATECHISMO DEI GIOVANI
Venite e vedrete

Catechismo dei Giovani

Venite e vedrete
La croce: stoltezza e follia

6. Per noi obbediente fino alla morte di croce

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I Vangeli hanno dato una sottolineatura particolare agli eventi della passione, crocifissione e risurrezione di Gesù. In tutti e quattro i Vangeli, infatti, il racconto degli ultimi giorni della vita del Signore occupa uno spazio quasi sproporzionato rispetto al resto della narrazione. Perché questa attenzione e una stesura così ampia degli avvenimenti?
Lo scandalo e la stoltezza della croce
Anzitutto, la croce fu vista come la manifestazione suprema dell’amore del Padre e del dono di Gesù, il gesto che fa toccare con mano l’inesauribile amore di Dio verso di noi. Leggendo i racconti della passione, i primi cristiani provavano stupore, quasi incredulità: Dio ci ha amati fino a questo punto (Rm 5,6-8)!
C’è poi un secondo motivo: la passione è uno scandalo da superare. Scandalo teologico, perché non si tratta soltanto di accettare la croce come un momento qualsiasi della vicenda del Messia, ma come il luogo privilegiato in cui Dio si è rivelato nella sua realtà profonda e nella sua forza vittoriosa. La croce pone in questione il modo di concepire la salvezza e il modo di concepire Dio.
Infine, la passione non riguarda soltanto Gesù, ma coinvolge l’esperienza della comunità cristiana. La passione di Gesù continua in quella dei discepoli: la persecuzione, la calunnia, la derisione, l’emarginazione. I primi cristiani riflettevano sulla passione del loro Signore per comprendere la propria.
I racconti evangelici della passione sono il cuore di una più ampia riflessione, che ha occupato a lungo tutte le prime comunità cristiane. La domanda cruciale, che sottostà alle molte testimonianze, è una sola, anche se può essere formulata in diversi modi: perché Dio ha indirizzato il suo Messia sulla strada della croce? è questa una scelta conforme alle antiche Scritture? ha un significato per l’uomo e il mondo?
Un’ottima introduzione alla lettura dei racconti della passione di Gesù è una pagina densa, appassionata e di sorprendente attualità, che si trova nella prima lettera di Paolo ai cristiani di Corinto: per greci ed ebrei la croce è stoltezza e follia, per i credenti invece è potenza e sapienza di Dio (1Cor 1,17-2,5).
Tra gli ebrei, abituati a pensare le manifestazioni di Dio sullo schema dei prodigi dell’esodo dall’Egitto, era comune l’attesa di un Dio vittorioso e potente, risolutore, a cui nessuno avrebbe potuto opporsi. I Vangeli ricordano che più volte furono chiesti a Gesù segni convincenti (Mc 8,11Mt 16,1Gv 2,186,30). In questa prospettiva la debolezza della croce appariva una via completamente estranea al piano di Dio: uno scandalo.
I greci erano abituati a valutare in termini di genialità, di originalità e di affermazione di sé. Per la loro cultura, lo spendersi del Cristo in croce e il suo ostinato amore apparivano mortificazione di ogni originalità, mancanza di genialità e stoltezza: il contrario dei contrassegni dell’epifania di Dio.
Ancor oggi la croce è scandalo e stoltezza, e il motivo è sempre il medesimo. Ma se per chi non crede la croce è scandalo e follia, per chi crede essa è sapienza e potenza. Potenza, perché proprio nell’apparente debolezza dell’amore e del dono di sé Dio ha salvato il mondo. E sapienza, perché il volto di Dio è fatto di amore: fare il segno di croce o portare una croce al collo deve essere testimonianza che, nella nostra povertà e fragilità, ci dichiariamo anche noi dalla parte di quell’amore capace di sacrificare la propria vita.
CCC nn. 599-630CCC 1337-1341CdA nn. 208-209CdG1 pp. 198-200CdG1 256-257
Come Gesù
ha previsto e inteso
la sua morte?
Nei Vangeli non mancano passi in cui Gesù manifesta, in modo velato e allusivo, la consapevolezza del suo destino, cosa comporti la sua missione e la dedizione radicale al regno di Dio. Così, nel Vangelo di Marco, Gesù dice di essere lo "sposo" che sarà "tolto" (Mc 2,19-20); oppure, in una parabola, racconta come i vignaioli non esitarono a uccidere anche il "figlio" del padrone della vigna (Mc 12,1-12).
Ma ci sono anche affermazioni esplicite, come le tre predizioni della passione, che scandiscono la seconda parte del Vangelo, quasi pietre miliari che segnano il cammino di Gesù verso Gerusalemme (Mc 8,319,3110,33-34). La loro attuale formulazione si deve alla redazione del Vangelo, ma queste predizioni presentano un nucleo storico, probabilmente formulato in termini più semplici: "Il Figlio dell’uomo sarà consegnato nelle mani degli uomini" (Mc 8,31).
Tutti questi testi, sia quelli che parlano implicitamente della morte di Gesù sia quelli che lo fanno esplicitamente, concordano nel testimoniare che Gesù non soltanto ha previsto la propria morte, ma ne ha anche colto il significato. Per Gesù, la morte non è semplicemente lo sbocco logico, inevitabile e prevedibile di ciò che egli dice e fa, l’esito ultimo delle reazioni violente che egli suscita. Egli vede in essa l’espressione di una fedeltà totale al disegno dell’amore di Dio, il quale vuole essere sempre e totalmente disponibile all’uomo, anche di fronte alla sua malvagità.
Il rendimento
di grazie
nella cena
della Pasqua
Per rispondere alla domanda se Gesù ha previsto la propria morte e come l’ha interpretata, è decisivo il racconto dell’istituzione dell’Eucaristia. Tanta è la sua importanza, che non solo la ricordano i Vangeli (Mc 14,22-25Mt 26,26-29Lc 22,19-23), ma anche Paolo (1Cor 11,23-26). È un episodio da meditare con molta cura. Istituendo l’Eucaristia, nell’imminenza della sofferenza e della croce, Gesù manifesta la sua verità e offre una chiave per interpretare gli eventi dolorosi che incombono.
In questo racconto colpisce anzitutto il contesto solenne e festoso. La sala ben preparata, il banchetto, il vino caratterizzano la cena di Gesù in compagnia dei discepoli come un convito di gioia. È la Pasqua del Signore, la festa della salvezza e della liberazione.
Al tempo di Gesù la Pasqua aveva un doppio significato. Il pio israelita ricordava come un tempo fosse stato liberato dall’Egitto e come le case, segnate dal sangue dell’agnello, fossero state risparmiate dalla grazia di Dio. Ma questo è solo un aspetto: il convito pasquale aveva anche contemporaneamente uno sguardo rivolto alla liberazione futura, di cui quella dalla schiavitù d’Egitto era una figura. Dunque: passato e futuro, ricordo e speranza, gioia per la liberazione ottenuta e per la certezza di una liberazione ancora più grande.
Gesù ha compiuto il suo gesto in questa cornice, proprio perché voleva che esso si caricasse di tutti questi significati. La cena di Gesù è una cena di addio, ma egli va incontro alla sua morte nella certezza di un nuovo convito nel regno di Dio.
Gesù ha istituito l’Eucaristia durante un banchetto, scegliendo dunque un contesto umano, che è nel contempo fra i più semplici e quotidiani e fra i più ricchi di valori simbolici: intimità, fraternità, amicizia.
La gioia della cena di Gesù non trova unicamente la sua radice nel dono della libertà che Dio ci ha fatto e neppure soltanto nella promessa della salvezza futura, ma anche nella fraternità che già ora, attorno a lui, gli uomini possono costruire e gustare. Non a caso Luca, raccontando la cena dei primi cristiani, dice: "Spezzavano il pane nelle case prendendo i pasti con letizia e semplicità di cuore" (At 2,46).
In questo banchetto fraterno Gesù, "preso un pane, rese grazie" (Lc 22,19): da questo particolare, in apparenza secondario ma in realtà essenziale, il gesto di Gesù mutuò il suo nome di "Eucaristia", che significa, appunto, "ringraziamento".
Gesù ringrazia – e con lui continua a farlo la Chiesa e ogni discepolo – per le grandi opere che Dio ha compiuto a nostro favore: dalla creazione alla redenzione, dal dono del cibo, il pane e il vino, al dono della sua alleanza, la "nuova alleanza", dall’amicizia fra noi all’amicizia con lui. Fare Eucaristia significa riconoscere i doni di Dio, sempre e dovunque, e saper ringraziare.
Il mio corpo
dato per voi
Il tratto centrale della cena è costituito dai gesti di Gesù sul pane e sul vino: il pane spezzato e offerto, il vino versato e le parole che ne commentano il significato: "Questo è il mio corpo che è dato per voi... Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, che viene versato per voi" (Lc 22,19-20).
Il pane spezzato e offerto e il vino versato sono simboli già di per sé molto chiari e si riferiscono senza dubbio alla passione e alla croce. Ma non si limitano a predire la passione e la croce, bensì ne svelano il significato. Se vista in superficie la passione di Gesù sembra essere semplicemente il frutto della malvagità degli uomini, letta in profondità, alla luce del gesto eucaristico, mostra di essere un preciso e consapevole dono che Gesù fa di se stesso.
Il corpo e il sangue stanno per tutta la persona, nella sua identità e nella sua azione. Il dono di Gesù non è soltanto la passione, ma la sua persona e la sua intera esistenza. Donare la vita è la verità di Gesù. La sua morte per noi è stata la conclusione di un’intera vita per noi. Gesù muore come ha vissuto: "per le moltitudini" (Mc 14,24). Se i primi cristiani hanno capito che la morte di Gesù fu un dono per tutta l’umanità, è perché avevano già visto prima Gesù vivere per tutti.
Il significato di questo dono è illuminato da due riferimenti all’Antico Testamento. Anzitutto al libro dell’Esodo, dove si legge che "Mosè prese il sangue e ne asperse il popolo, dicendo: "Ecco il sangue dell’alleanza..."" (Es 24,8). E poi al libro di Isaia, in cui si racconta di un misterioso "Servo" del Signore, il quale, oltraggiato e perseguitato, dona la sua vita per i molti che lo rifiutano (Is 52,13-53,12).
Questi due riferimenti fanno comprendere che la passione e la croce, l’intera vita di Gesù sono un gesto di alleanza, un gesto di solidarietà di Dio nei confronti di ogni uomo. Ma hanno anche un valore di redenzione, come il sacrificio del Servo del Signore, fedele a Dio, perché obbedisce alla sua volontà fino a dare la vita, e fedele al popolo, al quale dona se stesso.
L'Eucaristia è istituita fra la constatazione del tradimento di Giuda e la profezia dell’abbandono dei discepoli. Il dono di Gesù avviene nella consapevolezza dell’abbandono e del tradimento: "Nella notte in cui veniva tradito", cioè consegnato (1Cor 11,23). È dunque un dono che scaturisce dal perdono. Gesù si è donato mentre veniva consegnato. Le prime comunità cristiane non celebravano l’Eucaristia senza ricordare il contesto di tradimento e di incomprensione che ha accompagnato i momenti più importanti della vita di Gesù. Nello stridente contrasto fra il gesto di Gesù che si dona e il tradimento degli uomini, la Chiesa ha colto la grandezza dell’amore di Gesù, la sua gratuità, la sua solidità.
Ma tutto questo racchiude anche un duplice avvertimento. La comunità è invitata a non scandalizzarsi allorché scoprirà nel proprio seno il tradimento e il peccato. Viene così tolto alla radice ogni motivo per dire: questa non è più la Chiesa amata da Dio! Contemporaneamente emerge l’invito a non cullarsi in false sicurezze e a non presumere di sé. Il peccato è sempre possibile ed è male fidarsi unicamente delle proprie forze. La comunità è invitata a vigilare.
Nella memoria
del Signore
Nei racconti eucaristici sono presenti alcuni imperativi rivolti ai discepoli: "Prendete, mangiate, bevete, fate questo in memoria di me". Questi imperativi mostrano che la croce ci parla non solo di Dio e di Gesù, ma anche dell’uomo e della Chiesa.
Guardando la croce e facendone memoria nel gesto del pane e del vino, il discepolo scorge la verità di Dio, che è amore, la verità di Gesù, che è dono, ma anche la verità di se stesso, la via che deve a sua volta percorrere. Prendere, mangiare, bere, fare memoria esprimono la sequela, cioè la profonda condivisione dello stesso destino di Gesù.
I due gesti eucaristici, il gesto del pane e quello del vino, si inseriscono inoltre in un quadro rituale ebraico già esistente: la benedizione prima del pasto, con il pane, e quella alla fine di esso, con la coppa del vino. Il gesto di Gesù è in continuità con la fede e le attese del suo popolo. E tuttavia i suoi gesti sono nuovi, come è nuovo il volto di Dio e del suo amore, che egli ha rivelato in tutta la propria esistenza.
Perché Gesù ha voluto raccogliere la sua intera esistenza in gesti simbolici, rituali e ripetibili? Non solo per spiegarci il senso della sua vita, ma perché la sua comunità potesse farne sempre memoria. Una memoria, però, che non solo ricorda, ma rende presente ciò che ricorda. Nel pane e nel vino dell’Eucaristia Gesù rimane sempre e realmente presente fra i suoi discepoli, in ogni luogo e in ogni tempo.
L’obbedienza
dolorosa
al Padre
Nel lungo racconto evangelico della passione si intrecciano due linee: una scorre in superficie e registra gli avvenimenti, raccontando ciò che gli uomini infliggono a Gesù; l’altra scende in profondità e svela ciò che Gesù vive nel suo intimo.
La scena del Getsèmani appartiene alla seconda linea (Mc 14,32-52). Nel racconto compaiono diversi personaggi: Gesù, anzitutto, e con lui tutti i discepoli, poi i tre prediletti, Giuda che si avvicina per consegnare Gesù, la folla che si impossessa di lui. Nell’ombra, invisibile ma presente, c’è il Padre, a cui Gesù si rivolge.
La scena è animata da numerosi personaggi, ma è molto significativo che il soggetto di tutto il racconto resta sempre Gesù. I discepoli sono fermi e muti, e anche il Padre, nell’ombra, è silenzioso. Solo Gesù agisce e parla. Non c’è dubbio che il protagonista sia lui.
Nel Getsèmani Gesù è impaurito, angosciato e triste. I termini che Marco utilizza sembrano addirittura dire che Gesù è disorientato. Alcune tensioni del racconto lo rivelano: all’inizio un Gesù angosciato e impaurito, alla fine un Gesù sereno e padrone di sé; da una parte Gesù che veglia e prega, dall’altra i discepoli assonnati; all’interno dell’animo di Gesù un dibattito fra il desiderio di mutare la sua sorte e la piena accettazione della volontà del Padre.
L’insistenza di Marco è su quest’ultima tensione, come è provato dal fatto che egli riporta tre volte la preghiera rivolta al Padre. L’angoscia di Gesù, però, non è l’angoscia del dubbio, ma il dolore che accompagna l’obbedienza consapevole del male che si abbatte su di lui. Il dibattito, quasi una lacerazione che avviene nel suo animo, non è fra obbedienza o disubbidienza. Gesù è costantemente in un atteggiamento di fondamentale obbedienza. Non lo sfiora il pensiero che l’uomo possa fare la propria volontà anziché quella di Dio. Nell’imminenza della passione, però, chiede che la volontà di Dio sia, se possibile, diversa.
L’angoscia di Gesù è profonda, ma deve essere letta a partire dall’invocazione: "Padre mio"; questa regge l’intera preghiera e illumina l’agonia di Gesù. L’angoscia non mette in crisi la sua fiducia. Anche nell’angoscia egli non cessa di rivolgersi a Dio con l’appellativo "Abbà" (Mc 14,36). Con la stessa forza e dolcezza Gesù aveva rivelato Dio ai discepoli.
C’è un’altra tensione da osservare: negli avvenimenti esterni, Gesù è passivo, consegnato, abbandonato, crocifisso. I verbi dominanti sono "lo condussero" (Mc 14,5315,11622) e "lo consegnarono" (Mc 14,10114415,11015). Ma interiormente, in profondità, Gesù è attivissimo, fino ad ergersi a protagonista. E lui che spiega la ragione della sua passione (Mc 14,24), obbedisce al Padre (Mc 14,36) e alle Scritture (Mc 14,49), confessa coraggiosamente la sua identità (Mc 14,62), manifesta il suo disagio interiore (Mc 14,3415,34).
"Consegnato"
nelle mani
dei peccatori
Chi ha messo in croce Gesù? La conclusione dell’episodio del Getsèmani è in proposito molto illuminante: "Ecco, il Figlio dell’uomo viene consegnato nelle mani dei peccatori. Alzatevi, andiamo! Ecco, colui che mi consegna è vicino" (Mc 14,41-42).
Compare qui due volte il verbo "consegnare", già utilizzato da Marco nelle predizioni della passione (Mc 9,31; 10,33) nel racconto del tradimento di Giuda (Mc 14,101821) e che, come abbiamo visto, attraversa la strada della passione come un motivo dominante. La forma passiva ("viene consegnato") lascia intendere che il protagonista nascosto è Dio. La successiva forma attiva ("colui che mi consegna") dice che protagonisti sono anche gli uomini.
La duplice forma segnala i diversi piani su cui si svolge e può essere letta la passione. Dio, Giuda, i peccatori: a un livello di superficie la passione è opera di uomini, ma a un livello profondo, nascosto, essa sta in un disegno di Dio. Gesù a lui si rivolge e a lui si consegna. A un livello storico ristretto, circoscritto, la responsabilità della consegna appartiene agli attori del momento – Giuda e le autorità ebraiche e romane –, ma a un livello più vero e profondo, la responsabilità della passione appartiene a tutti gli uomini, "i peccatori".
La condanna
del Messia
innocente
Nel confronto tra Gesù e le autorità ebraiche i Vangeli riconoscono il momento della manifestazione messianica di Gesù. Di fronte al Sinedrio, tribunale supremo dell’ebraismo del tempo, diventa esplicito e chiaro quanto Gesù nel suo insegnamento e con i suoi miracoli aveva misteriosamente indicato (Mc 14,53-15,1).
Quel che viene presentato è un processo, anche se le diverse versioni degli evangelisti – in particolare il riferimento a un’azione presso l’influente grande sacerdote Anna (Gv 18,12-24) e ad una fase processuale davanti ad Erode (Lc 23,6-12) – non aiutano a ricostruirne con precisione lo svolgimento. Non è facile quindi valutare la natura e le responsabilità della decisione di portare Gesù di fronte al governatore romano. È tuttavia certo che la condanna, e quindi la conseguente morte di Gesù, non possono essere imputate all’intero popolo ebraico del tempo e, tanto meno a quello dei secoli successivi. In queste azioni entra invece la responsabilità di una parte dei ceti direttivi di Gerusalemme, una responsabilità che condividono con le autorità romane in Palestina.
È un processo ben strano, in cui i testimoni non riescono a esibire prove decisive per la condanna. In esso emerge di continuo l’innocenza dell’imputato, così che, soprattutto nel Vangelo di Giovanni, sembra quasi che le parti si invertano e Gesù appare come il giudice dei suoi accusatori. C’è una dignità nel suo comportamento, una linearità nella confessione della sua identità e della sua opera che contrasta decisamente con il comportamento dei discepoli, di Pietro in particolare che tutti li rappresenta. Al tradimento, alla confusa negazione della propria sequela, non manca però la prospettiva del pentimento e quella del perdono.
Al centro della vicenda sta l’affermazione di Gesù circa il suo legame tutto particolare con il Padre e il suo riferirsi esplicitamente alla figura gloriosa del Figlio dell’uomo. Gesù è il Messia atteso, ma la sua messianicità è ancora una volta lontana dalle attese e dalle convinzioni del tempo. È lui il Messia della nostra vita, colui che il Padre invia come salvatore della nostra esistenza e che apre una storia nuova, che si contrappone a un mondo segnato dal peccato. Di fronte a lui non possiamo rimanere neutrali.
La regalità
del servizio
Un crocevia del racconto della passione è senza dubbio il processo di fronte a Pilato, dove viene affermata la regalità di Gesù (Mc 15,1-20).
Il titolo "re dei giudei" attribuito a Gesù, già anticipato da Matteo nei racconti della nascita (Mt 2,2), ricompare nei Vangeli solo nel racconto della passione. È già un dato molto indicativo. Quella di Gesù è una regalità che soltanto in un contesto di passione appare in tutto il suo senso e il suo splendore. Soltanto all’ombra della croce si può cogliere la regalità di Gesù senza cadere in equivoci.
La scena degli oltraggi, nella quale Gesù è vestito da re per burla e viene deriso, mette in luce il suo abbassamento nella umiliazione, ma dimostra anche quanto la sua regalità sia diversa dalle attese comuni di prestigio e di forza.
C’è una radicale differenza fra la regalità del mondo e la regalità di Gesù, tra le manifestazioni della prima e le manifestazioni della seconda. Nulla in comune fra le due: la regalità del mondo si manifesta nella potenza, nella imposizione, nell’affermazione di sé; la regalità di Gesù si manifesta, invece, nel servizio, nell’amore, nel dono di sé.
La morte di croce:
compimento
e salvezza
La prima impressione che il racconto della crocifissione suscita, nel racconto di Marco (Mc 15,21-41), come pure in quello di Matteo (Mt 27,32-56), è quella della solitudine di Gesù: egli muore nel più totale abbandono. È insultato dai passanti, i quali rilanciano contro di lui l’accusa dei falsi testimoni al processo: "Ehi, tu che distruggi il tempio e lo riedifichi in tre giorni, salva te stesso scendendo dalla croce!" (Mc 15,29). Lo insultano gli scribi, i farisei e gli anziani: "Ha salvato altri e non può salvare se stesso!". Se fosse davvero il Messia, Dio lo farebbe scendere dalla croce. Se davvero fosse amico di Dio, Dio lo libererebbe. Nell’insulto viene negata l’identità più profonda di Gesù: negati i suoi miracoli, la sua pretesa messianica, la sua comunione con il Padre.
Nella voce dei passanti, dei sacerdoti e degli scribi risuona la medesima voce di satana, che abbiamo sentito nel deserto (Mt 4,1-11): "Se sei il Figlio di Dio..."; se sei davvero il Figlio di Dio, devi poter disporre di una forza che ti rende credibile, devi poter disporre di un aiuto di Dio che mostri la tua ragione! Non è forse vero che Dio interviene sempre a salvare i giusti? Così è detto, ad esempio, nei Salmi (Sal 111234,5-8).
Gli avversari hanno, dunque, la prova della verità del loro verdetto (si direbbe una prova desunta dalle Scritture!): se non può salvarsi, se Dio non lo salva, questo significa che Gesù è nel torto. Grava pure su di lui il dramma di sentirsi quasi sommerso dal peccato del mondo. Comprendiamo così la solitudine di Gesù, e comprendiamo il grido della sua preghiera: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?" (Mc 15,34). Finisce così quel Maestro che all’inizio ci ha provocato chiedendoci: "Che cercate?", che ci ha detto con sicurezza: "Venite e vedrete"?
Ma i Vangeli, alla luce delle Scritture, ci offrono subito una chiave di interpretazione. La spartizione delle vesti, la sete, il grido di abbandono, gli scherni rimandano ai Salmi 22 e 68. Con il riferimento alla Scrittura viene detto che la croce non è una smentita, una sconfitta, ma un compimento. È un passaggio obbligato per ogni discepolo, fa parte a pieno titolo della chiamata:
"Venite e vedrete". Ci viene pure detto che, al di là delle apparenze, Gesù non è solo: fa parte di una storia ed è in compagnia dei profeti e dei giusti. Anche noi siamo interessati e coinvolti.
C’è infine un’altra chiave di lettura, certamente la più importante: nel cuore stesso dello scandalo si fa strada la vittoria sul peccato. Prima della sua morte tutto è contro Gesù, ma appena egli è morto tutto si volge a suo favore. Due segni, soprattutto, testimoniano che la sua morte è salvezza: il velo del tempio che si lacera e il riconoscimento da parte del centurione pagano: "Veramente quest’uomo era Figlio di Dio" (Mc 15,39) Gesù, dunque, aveva ragione.
La conclusione degli evangelisti è che ci sono due modi di guardare alla croce: l’incredulo vede in essa uno scandalo insuperabile, uno scandalo teologico, e quindi trova in essa la giustificazione del proprio rifiuto; il credente, al contrario, trova in essa la rivelazione più alta e insospettata del volto misericordioso di Dio e ne fa la ragione della propria fede.
Morto
per i nostri
peccati
Giunti al termine della nostra lettura della passione e della croce, occorre guardare indietro, allargando lo sguardo alla fede di tutto il Nuovo Testamento. Solo così possiamo comprendere la croce in tutta la sua profondità.
Tra le formule più brevi, ma anche più dense di significato, che la comunità apostolica usò per esprimere la propria comprensione della morte di Gesù, c’è la seguente: "Morì per i nostri peccati". Così scrive Paolo ai cristiani di Corinto, riportando un’antica formula della tradizione: "Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo mori per i nostri peccati secondo le Scritture" (1Cor 15,3; si veda anche Rm 4,255,6).
La formula indica che Gesù è morto a motivo dei nostri peccati. Non tanto a motivo dell’ipocrisia delle autorità di Gerusalemme o della ignavia di Pilato, ma in realtà a motivo dei nostri peccati. Siamo tutti responsabili della morte di Gesù. I peccati "crocifiggono di nuovo il Figlio di Dio" (Eb 6,6).
L’espressione "per i nostri peccati" non significa soltanto che Gesù fu messo a morte "a motivo" dei nostri peccati, ma soprattutto, per noi, che siamo peccatori. È questo il dato che ci importa comprendere. Gesù, andando incontro alla sua morte, non ha cercato il patire, ma l’obbedienza a Dio, la verità e l’amore per l’uomo. Per Gesù la croce è il prezzo della fedeltà e dell’amore a Dio e agli uomini.
La solidarietà
di Dio con noi:
la vittoria
dell’amore
Nel primo capitolo della sua prima lettera ai cristiani di Corinto, Paolo non esita ad accostare "la parola della croce" al verbo "evangelizzare" (1Cor 1,17-18), che significa portare una notizia lieta e gradita. Questo sorprendente legame fra croce e lieta notizia appare in altri due passi della stessa lettera (1Cor 11,2615,1-3). Croce e lieta notizia sembrano apparentemente due realtà del tutto opposte; invece, sono unite. Come la croce può dirsi vangelo, cioè lieta notizia? Questo interrogativo mette in gioco tutta la verità cristiana.
Certo, se la croce viene ridotta al "prezzo" che il Figlio di Dio deve pagare al Padre per riparare i peccati dell’uomo, finendo di conseguenza con l’insinuare l’idea di un Dio "giusto" al modo degli uomini, la cui giustizia è rigidamente regolata dal "tanto quanto", allora la croce non può dirsi lieta notizia. La croce, nel suo aspetto di amore fino al dono della vita (Gv 13,115,13), evidenzia invece la solidarietà di Dio nei nostri confronti. Con noi il Figlio di Dio si è comportato come il parente che si prende personalmente a carico la sorte del fratello (Mc 10,45). Il punto di vista corretto per osservare la croce di Gesù non è quello di una collera divina che deve essere placata, ma quello di un Dio disponibile a ricostituire per l’uomo la pienezza di vita compromessa dal peccato. Perché Dio è disposto ad accogliere la morte del suo Figlio per vincere il peccato? Non perché egli ne sia toccato nella sua intima perfezione, ma perché il peccato è contro l’uomo e Dio ama l’uomo, tanto da non poter rimanere indifferente al male che l’uomo si fa.
La croce è la rivelazione massima, oltre ogni attesa, della solidarietà di Dio nei confronti dell’uomo. Una solidarietà così forte che non si lascia vincere dallo stesso rifiuto dell’uomo. Rifiutato da noi, Gesù muore per noi. La croce è la rivelazione di chi è veramente Dio: un amore infinito superiore a ogni immaginazione. Il gesto del Padre che dona il Figlio e del Figlio che dona se stesso non è misurato sul bisogno dell’uomo, ma sulla ricchezza dell’amore di Dio. Per tutto questo non solo la croce è lieta notizia, ma in un certo senso è il centro della lieta notizia.
C’è poi anche un secondo aspetto che fa della croce una lieta notizia. Essa mostra che la via dell’amore è vittoriosa: sembra perdente, ma è vittoriosa. La croce è una lieta notizia per tutti i martiri, per tutti coloro che spendono la loro vita al servizio di Dio, della giustizia e della verità.
Sbaglieremmo se pensassimo all’evento della croce come a un disguido, prontamente riparato dalla risurrezione. La risurrezione è invece l’altra faccia della croce: non la riparazione di una sconfitta, ma il segno che la croce non era una sconfitta.
La risurrezione è il segno che la via della fedeltà a Dio e del dono di sé fino alla croce è vincente. Una grande lieta notizia.

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