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CATECHISMO DEI GIOVANI
Venite e vedrete

Catechismo dei Giovani

Venite e vedrete
In quei giorni

3. La buona notizia Si compiono le atteseCdA 225-2266. Per noi obbediente fino alla morte di croce Minacce di morte

(vedi pure )
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"Nell’anno quindicesimo dell’impero di Tiberio Cesare, mentre Ponzio Pilato era governatore della Giudea, Erode tetrarca della Galilea, e Filippo, suo fratello, tetrarca dell’Iturèa e della Traconìtide, e Lisània tetrarca dell’Abilène, sotto i sommi sacerdoti Anna e Caifa, la parola di Dio scese su Giovanni, figlio di Zaccaria, nel deserto" (Lc 3,1-2).
Precisando il tempo e il luogo in cui ha inizio la vicenda che si accinge a raccontare, l’evangelista Luca ci dice che questa è una storia reale, accaduta in un luogo preciso e in un tempo determinato. Gesù non è un’idea o un mito.
Prendendo poi come punto di riferimento non soltanto la Palestina ma l’impero romano, ci suggerisce che la storia di Gesù, quantunque geograficamente circoscritta e cronologicamente breve, ha in realtà un significato universale.
È perciò una storia da leggere con intelligenza. Da un lato va collocata nel suo tempo e nel suo ambiente culturale e spirituale, come si fa per ogni altra vicenda e ogni altro personaggio, pena l’incomprensione; dall’altro, occorre saper scorgere in essa un significato che va ben oltre il suo tempo e il suo ambiente e che ancora oggi è in grado di provocarci.
Sotto il dominio romano
La Palestina al tempo di Gesù era percorsa da fremiti di rivolta, vissuti prevalentemente in chiave religiosa. L’esigenza di liberazione dal dominio romano nasceva anzitutto non da motivi politici o economici, ma piuttosto da un disagio religioso: l’ebreo sentiva il dominio romano come uno scandalo per la fede.
In questa situazione c’era chi praticava la resistenza rivoluzionaria armata, chi l’adattamento opportunistico al sistema dominante e chi la passiva e sofferta rassegnazione. La terza posizione era quella della gente comune del popolo e dei farisei, la prima quella degli zeloti e la seconda quella dei ceti aristocratici e sacerdotali.
Gesù vive fra queste tensioni, ma non si identifica con nessuna delle posizioni esistenti. Egli predica il regno di Dio e la conversione, non un esteriore rovesciamento della situazione politica e sociale.
Eppure, la società del tempo, politica e religiosa, si sentì minacciata alla radice dal suo annuncio e dalla sua vita. Perché? È un primo importante interrogativo al quale dovremo rispondere.
Diciamo subito che Gesù non si lascia catalogare negli schieramenti politici esistenti. Egli si interessa dei problemi e li affronta da un’altra prospettiva, con una logica differente.
CCC nn. 423CCC 574-575CCC nn. 576-591CCC 595-596CdA nn. 112-117CdA 225-226CdG1 p.192
Gli zeloti:
la tentazione
della violenza
Non meno complessa della situazione politica era la situazione religiosa, frazionata in gruppi e tendenze spesso in tensione fra loro. Questa frammentazione religiosa, oltre che politica, era il segno di uno smarrimento, provocato dal crollo di ideali attorno ai quali Israele aveva a lungo trovato slancio e unità. Ma era anche il segno di una profonda inquietudine, di un’appassionata ricerca di verità, di un modo nuovo di vivere la fede.
Gli zeloti formavano un gruppo di minoranza, ma erano uomini decisi, combattivi, pieni di zelo appunto. Predicavano la riforma radicale del tempio e del sacerdozio; progettavano di espellere i romani dal paese e di ristabilire il regno di Dio. Erano persuasi della necessità della lotta armata.
Di fronte al tribunale romano Gesù sarà accusato di essere uno zelota, un sostenitore della ribellione aperta (Lc 23,2). Ma è un’evidente falsità. Gesù ha costantemente rifiutato la tentazione zelota, dal deserto alla croce. Non ha mai predicato il sovvertimento violento della situazione. Alla forza ha sempre opposto l’amore.
Il suo rifiuto della violenza scaturisce da un’esperienza di Dio. Egli sa che Dio è amore, e non altro. In lui si attinge una forza alternativa e costruttrice; a lui l’uomo è chiamato ad abbandonarsi totalmente.
Gli esseni
il rifiuto
del mondo
Gli esseni erano un gruppo piuttosto ristretto, non privo di attrattiva. La loro radicalità nel rifiuto del mondo e nell’attesa del giudizio imminente esercitava un grande fascino su molti spiriti.
Ritenevano il mondo ormai irrimediabilmente perduto e si ritiravano a far vita comune nel deserto. Cercavano Dio nello studio appassionato della legge di Mosè, nelle osservanze rituali, nelle rinunce ascetiche e nella preghiera.
Gesù si distingue profondamente anche da loro. Di fronte al rifiuto ostinato della società, Gesù non si è ritirato dal mondo, abbandonandolo al suo destino, né ha invitato i discepoli a farlo. È rimasto nel mondo e ha dato la sua vita anche per coloro che rifiutavano il suo messaggio.
Gesù sa che Dio continua ad amare questo mondo, benché rovinato dagli uomini e sfigurato dal peccato. Perciò, al rifiuto del mondo, Gesù oppone la sua ostinata solidarietà. E non suggerisce di estraniarsi dal mondo, bensì di opporsi alla sua idolatria.
I sadducei:
per la libertà
del tempio
Il gruppo dei sadducei era costituito dai membri dell’aristocrazia sacerdotale. Da loro uscirono quasi tutti i sommi sacerdoti al tempo degli inizi del cristianesimo. L’abilità politica permise loro di occupare posti chiave sotto Erode e sotto i governatori romani. Si sforzavano di moderare l’ostilità contro Roma – gli zeloti erano perciò i loro principali avversari – e di dimostrare ai romani la loro lealtà. li loro scopo era di salvare la libertà di espressione religiosa organizzata attorno al tempio.
Dal punto di vista religioso si differenziavano dal farisei, con i quali erano spesso in polemica, soprattutto su due punti. Respingevano le tradizioni a cui, invece, i farisei erano molto attaccati: per i sadducei solo la Legge scritta obbligava, mentre le tradizioni non avevano alcun potere vincolante. E poi respingevano la fede nella risurrezione, negando la possibilità di una vera forma di vita ultraterrena. La religione, che essi proponevano, era esclusivamente legata alla ricerca di una benedizione divina per questa vita terrena e si esprimeva soprattutto attraverso la pratica dei riti, in particolare dei sacrifici al tempio.
Contro di loro Gesù oserà sfidare l’ordine del tempio (Mc 11,15-18), suscitando un’opposizione aperta e decisa, firmando, in tal modo, la propria condanna a morte. Durante la passione, i sadducei saranno i suoi più autorevoli e accaniti accusatori. A una loro domanda sulla risurrezione, che tende a porlo in difficoltà, Gesù risponderà affermando la realtà della risurrezione e accusandoli di non comprendere né le Scritture né la potenza di Dio (Mc 12,18-27).
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I farisei:
la fiducia
nella propria
giustizia
I farisei erano il gruppo più numeroso e popolare, e i Vangeli ne parlano continuamente, come ad esempio nella parabola del fariseo e del pubblicano (Lc 18,9-14). Qui il fariseo incarna un modo di porsi di fronte a Dio e di fronte al prossimo. E difatti Gesù racconta la parabola per "alcuni che presumevano di esser giusti e disprezzavano gli altri".
È bene fare subito una precisazione. Il movimento fariseo del tempo di Gesù era un fenomeno complesso e articolato, e sarebbe ingiusto identificarlo in blocco con la descrizione che sembra emergere dai Vangeli. Morti farisei non meritavano gli aspri rimproveri che Gesù rivolgeva ad alcuni di loro. I Vangeli hanno poi semplificato la figura del fariseo e ne hanno persino esasperato alcuni tratti negativi. Si può dire, forse un po’ esagerando, che gli evangelisti abbiano trasformato il fariseo in un simbolo, in cui sono venute ad assommarsi le molte e svariate storture in cui la vita religiosa di ogni tempo, anche quella cristiana, può cadere.
Che i Vangeli abbiano compiuta questa operazione non deve sorprendere: il loro scopo è infatti di far sì che il lettore colga nel fariseo un personaggio attuale, che gli assomiglia. Il fariseismo è anche dentro di noi.
Il fariseo della parabola osserva scrupolosamente le pratiche della sua religione e ha molto spirito di sacrificio. Non si accontenta dello stretto necessario, ma fa di più. Non digiuna soltanto un giorno alla settimana, come prescrive la legge, ma due. Il suo torto non sta nell’ipocrisia: quanto egli dice è la verità. La sua osservanza della Legge è attenta e scrupolosa.
Il suo torto sta nel porre fiducia nella propria giustizia. Si ritiene in credito presso Dio: non attende la sua misericordia, non attende la salvezza come un dono, ma piuttosto come un premio dovuto per il dovere compiuto. Dice: "O Dio, ti ringrazio..." (Lc 18,11). Fa dunque risalire a Dio, in qualche modo, la propria giustizia. Ma la consapevolezza di un’originaria dipendenza da Dio si perde lungo la strada: non è per lui l’asse attorno a cui ruotano tutti i suoi sentimenti; non è da lì che egli deriva la ragione della sua preghiera né i criteri per giudicare il suo prossimo. Tanto è vero che egli – a parte quel "ti ringrazio" detto all’inizio – non guarda a Dio, non si confronta con lui, non attende nulla da lui, né gli chiede nulla. Si concentra su di sé e si confronta con gli altri, giudicandoli duramente. In questo suo atteggiamento non c’è preghiera autentica. Non chiede nulla; e Dio non gli dà nulla.
Raccontando la parabola, Gesù ricorda al fariseo, e a noi, che l’unico modo corretto di porsi di fronte a Dio, nella preghiera come nella vita, è sentirsi costantemente peccatori e bisognosi del suo perdono. La salvezza è dono, non conquista. Le opere buone si debbono fare, ma non è il caso di vantarle, né di fronte a Dio né di fronte agli uomini. Il fariseo che attribuisce a se stesso la propria giustizia e ne fa la pietra di misura per valutare e giudicare gli altri rappresenta, in un certo senso, la faccia "religiosa" di un modo di pensare anche oggi diffuso, secondo cui l’uomo è ciò che fa, l’uomo è ciò che ha. Gesù invece non guarda l’uomo per ciò che ha o per ciò che fa, ma per come è amato da Dio.

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