Catechismo dei Giovani
Venite e vedrete
Insegnava come uno che ha autorità
6.
Per noi obbediente fino alla morte di croce
Il regno di Dio e la persona di GesùCdA 285-3008.
Gesù Cristo Figlio di Dio
Il CristoIl SignoreIl FiglioIl Verbo fatto carne
(vedi pure
)
Con l’annuncio del Regno, con l’accoglienza dei poveri e dei peccatori, con le sue scelte di vita, soprattutto con la sua preghiera, Gesù ci ha lasciato intravedere chi egli sia. E già abbiamo compreso che il nucleo più profondo della sua persona è il suo modo di stare davanti a Dio, che egli invoca sempre col nome di Padre. Nei confronti di questa paternità divina, Gesù non si presenta soltanto come colui che l’annuncia, ma come uno che in un modo del tutto particolare la conosce, la sperimenta e la vive.
Ora però vogliamo osservare, se possibile, l’identità di Gesù più da vicino. Gesù ha parlato di se stesso? Che coscienza di sé ha manifestato?
Una rivelazione graduale
Prima di rispondere vanno ricordate due cose, che i Vangeli testimoniano ampiamente.
Gesù anzitutto non ha scelto di rivelare subito e a tutti la propria identità. Egli si è svelato gradualmente, lasciandosi scoprire più che dichiarandosi apertamente, tanto che gli stessi discepoli hanno pienamente Capito chi egli era solo alla fine del cammino con lui.
E poi Gesù è vissuto con lo sguardo costantemente rivolto a Dio più che a se stesso e ha parlato molto meno di sé che di Dio. Ma proprio parlando di Dio ha rivelato se stesso: ci ha fatto capire di essere Figlio parlando di Dio come Padre.
Questa discrezione nel parlare di sé, ponendosi all’ombra di Dio, non nasconde l’identità di Gesù, ma la pone in piena luce: Gesù è la trasparenza del Padre, questa è la sua identità. Essa non offusca neppure la coscienza che egli ha di sé, ma ne indica, al contrario, la profondità e la direzione.
Una rivelazione indiretta:
l’autorità dell’insegnamento
Anche il modo di insegnare è manifestazione indiretta dell’identità di Gesù. Non solo per i contenuti, ma già per come li propone, il suo insegnamento assume carattere di sorprendente novità e di insolita autorevolezza. La gente se ne accorge: "Erano stupiti del suo insegnamento, perché insegnava loro come uno che ha autorità e non come gli scribi" (Mc 1,22). Per ogni loro affermazione gli scribi cercavano una giustificazione nelle Scritture o nelle tradizioni dei padri. Gesù, invece, parla a nome proprio, senza rimandare ad altre autorità. La forza delle sue parole sta in lui che le dice e nel modo con cui le dice. Addirittura, esige per le sue parole un’adesione che i maestri del tempo ritenevano dovuta soltanto alla parola di Mosè, e quindi a Dio.
Questa pretesa appare provocatoriamente sottolineata in alcune affermazioni che si leggono nel discorso della montagna, in cui Gesù sovrappone la sua parola alla legge mosaica, non per abolirla ma per portarla a compimento: "Avete sentito che fu detto... ma io vi dico" (Mt 5,21-48). Gesù si propone con un’autorità più grande di quella di Mosè.
| CCC nn. 430-455CCC nn. 514-518CdA nn. 208-212CdA 285-299CdG1 pp. 192-193 |
La coscienza
di un legame
unico
con Dio
Non mancano esempi al riguardo nei Vangeli. A un paralitico, che gli chiede la guarigione, Gesù osa dire: "Figliolo, ti sono rimessi i tuoi peccati" (Mc 2,5). I farisei hanno ragione di indignarsi: "Perché costui parla così? Bestemmia! Chi può rimettere i peccati se non Dio solo?" (Mc 2,7). Una pretesa sconcertante, questa di Gesù, che più che alla verità delle sue parole rimanda all’identità della sua persona. Solo uno che ha coscienza di condividere in modo del tutto singolare l’autorità di Dio, può affermare con tanta sicurezza: "Ti sono rimessi i peccati".
Anche altre affermazioni di Gesù ci portano alla stessa conclusione. Per esempio: "Chi accoglie me, non accoglie me, ma colui che mi ha mandato" (Mc 9,37). O anche: "Chi si vergognerà di me è delle mie parole davanti a questa generazione adultera è peccatrice, anche il Figlio dell’uomo si vergognerà di lui, quando verrà nella gloria del Padre suo con gli angeli santi" (Mc 8,38). La scelta che gli uomini fanno nei suoi confronti è insieme una scelta nei confronti di Dio.
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Messia
Gesù si è considerato Messia? "Messia", in greco "Cristo", è un titolo a cui la comunità primitiva è ricorsa ampiamente per esprimere la propria fede in Gesù, al punto da farlo diventare quasi il secondo nome di Gesù: Gesù Cristo. E certamente il titolo che, fra tutti quelli anticipati nell’Antico Testamento, avrebbe potuto meglio suggerire la dignità e la missione di Gesù. Messia è, però, anche un nome abusato è diventato ormai equivoco all’epoca in cui Gesù vive.
La maggior parte degli ebrei del tempo pensa al Messia come a colui che dovrà promuovere il riscatto nazionale di Israele contro i dominatori pagani. Più in generale, l’opera attesa del Messia è per molti una trasformazione materiale, sociale e politica delle condizioni di vita. C’è anche chi pensa al Messia come a un sacerdote che dovrà ristabilire il culto mosaico nella sua purezza. In nessuna di queste attese Gesù si riconosce.
Per questo egli ha molte riserve nei confronti di questo titolo. Ad esempio, quando Pietro a nome dei Dodici afferma la sua messianicità, Gesù non rifiuta questo riconoscimento, ma non vuole che se ne faccia pubblicità (Mc 8,29-30). Egli è sì Messia, ma non come la gente si aspetta. Se però a Pietro è agli altri discepoli proibisce energicamente di parlare in pubblico della sua messianicità, davanti al sommo sacerdote e al Sinedrio egli stesso la proclama apertamente (Mc 14,61-64). Sono profondamente mutate le circostanze: a Cesarea di Filippo la messianicità di Gesù correva il pericolo di essere fraintesa, ora non più. Umiliato e accusato, il Messia Gesù non corre più il rischio di essere separato dalla croce. Ormai è chiaro a tutti che la sua messianicità è diversa, è che va letta a partire dalla croce, per riconoscerla come per rifiutarla (Mc 15,29-3239).
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Figlio
dell’uomo
Nei Vangeli si incontra con una certa frequenza il titolo "Figlio dell’uomo". Gesù usa questa formula solenne ed enigmatica per parlare di sé: nel Nuovo Testamento essa si trova sempre e solo sulla sua bocca e ciò fa pensare che risalga proprio a lui. Gesù la usa per parlare della povertà che egli vive (Mt 8,20), delle derisioni di cui è oggetto (Mt 11,19), del suo destino di umiliazione è sofferenza, del suo cammino verso la croce (Mc 8,31). Ma la usa anche per affermare la sua signoria sul sabato (Mc 2,28), il suo potere di rimettere i peccati (Mc 2,10) e per annunciare il suo ritorno in potenza e gloria (Mc 13,26).
Gesù vede rispecchiata pienamente la propria identità in questa espressione e la usa per parlare di sé, anche perché, diversamente dal titolo Messia, non correva rischi di essere fraintesa. Era infatti un’espressione poco usata, in grado al tempo stesso di svelare e di nascondere la sua messianicità, sottraendola agli schemi consueti. Il titolo Figlio dell’uomo non si prestava a confusioni nazionalistiche e politiche, perché il suo significato era esclusivamente religioso. Un passo del profeta Daniele parlava di un misterioso Figlio dell’uomo, che "sulle nubi del cielo" sarebbe giunto fino a Dio, è avrebbe da lui ricevuto "potere, gloria e regno" (Dn 7,13-14). Chiamandosi Figlio dell’uomo, Gesù intende affermare che quella misteriosa profezia trova in lui la realizzazione.
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Figlio
di Dio
Il fatto che Gesù abbia avanzato pretese inaccettabili per un semplice uomo, sia pure profeta, ponendosi al di sopra di Mosè, della sua legge e del tempio; l’aver identificato la decisione nei suoi confronti con la decisione nei confronti di Dio stesso; anche l’aver riconosciuto, sia pure con riserve per evitare fraintendimenti, di essere il Messia atteso: tutto questo non ci porta ancora al nucleo più profondo dell’identità di Gesù, che, come già sappiamo, sta nel suo rapporto col Padre. È qui che va cercato il chiarimento ultimo del suo mistero.
Gesù ha parlato del suo rapporto con il Padre? In quali termini? Ha manifestato la coscienza di essere in modo unico Figlio di Dio? Anche su questo punto, il più delicato e al tempo stesso il più affascinante, non possiamo, per lo più, che raccogliere una serie di indizi, che però convergono tutti nella stessa direzione: il rapporto di Gesù con Dio è unico, diverso e misterioso.
Gesù usa l’espressione "il Padre vostro", affermando in tal modo con chiarezza l’universalità della paternità di Dio. Ma egli non dice mai, come sarebbe logico aspettarsi, "il Padre nostro", bensì "il Padre mio". Gesù è Figlio in modo singolare, non semplicemente come ogni altro uomo. La sua filiazione è altra da quella del discepolo.
Abbiamo già visto come, raccontando la preghiera di Gesù nel Getsèmani (Mc 14,36), Marco ci ha conservato una traccia importante del modo in cui Gesù si rivolgeva a Dio, cioè con il nome inconsueto di "Abbà", che non deve tradursi con "padre", ma piuttosto con "babbo, papà". Solo i bambini, o comunque i figli, usavano questo termine per rivolgersi al loro padre. In nessun luogo della letteratura ebraica si trova documentato l’uso di questa forma riferita a Dio. Era troppo confidenziale e quasi irriverente per la mentalità comune.
Ma accanto a questi indizi, quasi semplici cenni, d sono anche indicazioni più rare ma più esplicite. Per esempio, la parabola dei cattivi vignaioli (Mc 12,1-12). Alla domanda di alcuni farisei e anziani: "Con quale autorità fai queste cose?" (Mc 11,28), Gesù non risponde direttamente. Chi lo interroga non cerca sinceramente la verità ed è inutile rispondergli. Risponde però con una parabola, velatamente, raccontando la storia di un padrone che possiede una vigna, la dà in affitto a dei vignaioli e al tempo opportuno manda i suoi servi a ritirare i frutti. Ma i vignaioli bastonano i servi, uno dopo l’altro, li coprono di insulti e li uccidono. Allora il padrone invia il proprio figlio, pensando: "Avranno rispetto per mio figlio!". Ma anziché rispettarlo, i vignaioli si accaniscono contro di lui, proprio perché è il figlio: lo afferrano, lo uccidono e lo gettano fuori dalla vigna.
I servi sono i profeti inviati da Dio e il figlio è Gesù. La storia è per tutti la stessa: il rifiuto, le percosse e il martirio. E anche la missione è la stessa: ritirare i frutti dovuti al padrone. Ma diversa è l’identità degli inviati: i profeti sono "servi", Gesù è "il figlio prediletto"; è l’erede, come riconoscono gli stessi vignaioli; e la sua missione è l’ultima, quella definitiva. Inserito nella linea dei profeti, Gesù è diverso dai profeti: è il Figlio.
È già stata ricordata un’affermazione di Gesù di particolare densità: "Tutto mi è stato dato dal Padre mio: nessuno conosce il Figlio se non il Padre, e nessuno conosce il Padre se non il Figlio e colui al quale il Figlio lo voglia rivelare" (Mt 11,27). Queste parole dicono, anzitutto, chi è Gesù per noi: è l’unico ed esclusivo rivelatore del Padre; nessuno conosce il Padre tranne lui e nessuno può accedere al Padre se non attraverso la sua rivelazione. Ma Gesù non è solo questo: egli è il Figlio a cui il Padre ha dato tutto, senza tenersi nulla. Nel tutto è indicato il livello divino, che dà pienezza e spessore al termine "Figlio". Tanto che l’identità di Gesù è talmente insondabile che solo il Padre riesce ad abbracciarla: "Nessuno conosce il Figlio se non il Padre".
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"Io sono..."
Sin qui abbiamo tentato di aprire qualche spiraglio sull’identità di Gesù: chi è? qual è il suo rapporto con Dio? Ma l’identità di Gesù ha anche un altro risvolto: chi è Gesù per noi? quale il suo significato per la ricerca dell’uomo?
Il Vangelo di Giovanni, il più meditato fra i Vangeli, risponde alla nostra domanda. Riassume l’insegnamento di Cristo su se stesso e sul suo rapporto con il Padre affermando all’inizio che Gesù di Nazareth, protagonista della narrazione evangelica, è il "Verbo" incarnato, che fin dal principio era "presso Dio" ed "era Dio" (Gv 1,1), e ponendo a traguardo di tutto l’itinerario di fede la dichiarazione di Tommaso che, rivolto al Risorto, dice: "Mio Signore e mio Dio!" (Gv 20,28).
Nel quarto Vangelo Gesù fa lunghi discorsi: alla folla, agli ebrei e ai discepoli; discorsi che culminano costantemente in parole come "Io sono la luce del mondo" (Gv 8,12), "Io sono il pane della vita" (Gv 6,48), "Io sono la risurrezione e la vita" (Gv 11,25), "Io sono la via, la verità e la vita" (Gv 14,6), "Io sono la vera vite" (Gv 15,1). Luce, pane, vita sono simboli presenti nel mondo ebraico, ma anche in quello greco: sono simboli universali, che esprimono la ricerca dell’uomo, la sua ansia di salvezza, le sue domande sul senso dell’esistenza. Applicando questi simboli a se stesso, Gesù afferma di essere l’oggetto vero, ultimo, della ricerca dell’uomo. Nelle espressioni in cui Gesù utilizza la formula "Io sono", c’è una affermazione: Gesù è la salvezza dell’uomo; è una precisazione: solo Gesù lo è.
Solo Gesù è la vera luce. Dovunque si diradano le tenebre, si affaccia la sua presenza. Le ricerche dell’uomo non possono essere la conclusione, non sono la parola ultima, possono essere però avvio e preparazione, parola penultima. Così l’ebraismo nei confronti di Cristo (Gv 1,17). Così Giovanni Battista: non era la luce vera, ma il testimone della luce (Gv 1,8).
Ma Gesù non si pone soltanto come l’oggetto vero della ricerca dell’uomo: egli è, infatti, la manifestazione storica, accessibile, di quel Dio che l’uomo va cercando a tentoni. Sempre nel Vangelo di Giovanni, Gesù applica a se stesso, in forma assoluta, l’espressione "Io sono" (Gv 8,2858), il nome proprio di Dio rivelato a Mosè (Es 3,14). In tal modo egli ci manifesta il nucleo più profondo e misterioso della sua realtà: la sua connaturalità con il Dio d’Israele. Egli pretende, ancor prima, di essere la luce che svela all’uomo il senso vero della sua ricerca. Gesù svela l’uomo a se stesso. L’uomo cerca il pane, la luce, la vita: in realtà cerca Gesù.
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