Catechismo dei Giovani
Venite e vedrete
Se il sapore di ogni vita, di ogni giornata e di ogni impresa è legato alle speranze Che nutriamo, è ancora più vero Che ogni speranza è tesa al suo Compiersi. Possiamo ben Comprendere un’invocazione caratteristica delle prime generazioni cristiane: "Vieni, Signore Gesù" (1Cor 16,22Ap 22,20). Questa invocazione non suona come desiderio di fuga ed evasione dal mondo; al contrario, essa sostiene il valore dell’impegno storico nel mondo.
Invocare il ritorno del Signore significa vivere il presente non come tempo che sfugge, inesorabilmente sottratto, ma come vita tesa a un più profondo significato, accolto attraverso la scelta libera di chi si affida totalmente al Signore Gesù. La memoria della sua umanità e la fedeltà della sua parola e del suo Spirito sono la ricchezza della nostra esistenza; la sua condizione di Risorto è certezza di compimento della vita e di riscatto dalla morte.
Aspettiamo
Aspettiamo la risurrezione dei morti
La morte porta inequivocabilmente i tratti della fine. Con essa ogni vita umana viene sottratta alla storia. E tuttavia non si può concludere frettolosamente che essa segni la fine di tutto.
La sapienza popolare, in varie forme, lascia trasparire la convinzione dell’esistenza di una vita oltre la morte. La libertà dell’uomo, specie nelle sue forme più alte, soprattutto nella sua capacità di amore e di dedizione totale di sé per gli altri, dice un’intuizione profonda, non facile da identificare ma insopprimibile: chi dà la vita per gli amici non può essere da costoro perduto nel nulla della morte!
La fede biblica ha gradualmente svelato che proprio la fedeltà di cui Dio ci rende capaci, con tutto il cuore e con tutte le forze, anche a prezzo della nostra vita, ci attesta che la morte non può essere l’ultima parola dell’esistenza (Sap 1,13-15). Dio non può abbandonare gli uomini che vivono, sperano, si impegnano perché il mondo prenda il volto della sua bontà e della sua gloria. Proprio nella morte, veniamo accolti dal Dio della vita. La morte si trasforma nel compimento della vita e ne raccoglie i frutti (Sap 3,1-9).
Nel volto del Signore risorto la comunità dei primi discepoli ha colto la piena conferma di questa intuizione di fede dei giusti e dei profeti di Israele. Paolo spiega ai cristiani di Corinto che la fede in Gesù risorto implica la speranza della risurrezione per tutti: "Se si predica che Cristo è risuscitato dai morti, come possono dire alcuni tra voi che non esiste risurrezione dei morti?... Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti" (1Cor 15,1220).
Certo, a noi sfugge il come e il quando della risurrezione. Possiamo parlarne solo come riflesso dell’esperienza di Gesù risorto: Dio ci darà un modo di esistenza, nel corpo e nello spirito, per permetterci una piena e gioiosa comunione con lui e con i fratelli, in un mondo che riflette senza ombra il suo disegno.
Evidentemente questo trapasso della morte nel compimento della vita in Dio, non è automatico. Il volto drammatico e oscuro della morte ci fa Capire che essa è anche rischio di distruzione, di sconfitta. È il rischio al quale siamo esposti per il male che segna la storia e che fa presa su ciascuno di noi. È il rischio della nostra libertà, che può anche chiudersi alla bontà di Dio e arroccarsi nell’egoismo, fino ad escludere ogni apertura verso gli altri. Allora la morte si tramuta nell’inferno, in una vita che intuiamo insostenibile e insopportabile, proprio perché ha reciso alle radici la sua possibilità di realizzarsi nella comunione piena e gioiosa con Dio.
La parola di Dio consegna questo quadro oscuro della morte non per incutere paura, per indurre ad atteggiamenti servili nei confronti di Dio, ma per avvertirci della serietà della nostra libertà. L’inferno, come triste possibilità della libertà dell’uomo, è paradossalmente l’eco dell’infinito rispetto di Dio per le nostre scelte. La croce di Gesù ci ricorda fino a che punto, fino a quale prezzo, Dio è capace di rispettare la nostra libertà.
| CCC nn. 678-679CCC 988-1050CCC 1061-1065CdA nn. 1184-1235CdG1 pp. 332-334 |
Verrà
a giudicare
i vivi e i morti
Nella morte la consistenza della nostra vita viene totalmente allo scoperto, come luogo del giudizio secondo verità. Questa verità però non si presenta come giustizia fredda e inflessibile, senza appello. E la verità dell’amore, che accoglie e purifica chi in vita e in morte ha camminato nella ricerca della verità, pur nella fragilità della condizione umana. Il giudizio di Dio, che fa riferimento alla verità dell’amore semplice e quotidiano, come ricorda l’evangelista Matteo (Mt 25,31-46), è buona notizia, appartiene alle beatitudini del vangelo. Ci rende liberi di fronte ai giudizi umani, quelli che assumono i criteri della convenienza, degli interessi di parte, della pretesa di disporre degli altri, dell’ingiustizia, spesso privi di amore e di perdono.
Questo giudizio, proprio perché ultimo, vaglierà tutta la nostra vita, la profondità delle nostre intenzioni; comporterà forse l’esigenza di un’ulteriore purificazione, la nostra ultima "crisi", che ci conduce a eliminare quanto resta delle nostre chiusure all’amore di Dio. Il vocabolario della Chiesa ha dato a questa possibile situazione il nome di purgatorio. Al di là dei linguaggi e delle immagini usati per esprimerlo, esso è segno dell’infinita disponibilità di Dio all’uomo, nel pieno rispetto della libertà di ciascuno e delle scelte operate.
Resta alla fine decisivo ricordare che il Signore "verrà a giudicare i vivi e i morti" non da sconosciuto: è l’identico Signore della Pasqua, che si è inserito nella nostra storia con la sua parola, con gli impulsi del suo Spirito, con la compagnia dei testimoni che ha suscitato. Il giudizio ultimo del Signore è il fondamento di una sicura speranza per ogni causa di giustizia, di libertà, di rispetto, di fraternità e di amore, a cui l’uomo dedichi la propria vita. Chi cammina nella luce del giudizio del Signore, trova sempre energie insospettate di intelligenza e di purezza di cuore, come pure l’apertura all’invocazione del perdono per superare limiti e incoerenze.
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Crediamo
la vita eterna
La fedeltà del Signore non abbandona l’uomo nella morte, ma lo inserisce nella pienezza della vita. Di essa, cioè la vita eterna presso Dio, possiamo appena balbettare qualcosa, rifacendoci alle immagini della Scrittura. La difficoltà non nasce dall’oscurità, ma dall’eccedenza di luce, dalla sproporzione rispetto a ciò di cui abbiamo abitualmente esperienza.
Le immagini del banchetto festivo (Lc 12,35-37), della festa di nozze (Mt 25,1-13), della condivisione della gioia del Signore (Mt 25,14-30), dell’incontro faccia a faccia con lui (1Cor 13,121Gv 3,2) indicano tutte una stessa direzione: quella della piena comunione con Dio e tra noi. Tutta la ricchezza della benedizione divina e del suo amore sarà fonte della nostra gioia, senza più ostacoli, in pienezza, per sempre. Potremo insieme rallegraci del bene che tale amore produce in ogni fratello. Come ricorda l’apostolo Paolo, il regno di Dio si svelerà, allora, come il regno della piena fioritura dell’uomo nella gloria di Dio (1Cor 15,20-28). La gloria di Dio risplenderà come forza invincibile d’amore nel condurre l’umanità e il mondo, oltre ogni fragilità e ogni tristezza, alla loro piena realizzazione (1Cor 15,54-58).
La ricerca e il cammino della fede si nutrono dell’invocazione e della speranza. Nella sequela del suo Signore, il discepolo sa di avere un compito grande da svolgere: aprire nel mondo e nella storia uno spazio di gratitudine e di profezia. La nostra vita, alla luce della fede, diventa giorno dopo giorno un grazie sempre più vivo a Colui che, chiamandoci all’esistenza, ci ha donato un volto e un progetto. Da questa coscienza nasce in noi l’esigenza di essere per i fratelli segno credibile di un cammino possibile verso la pienezza della libertà. La vita diventa così un’eucaristia di comunione e di lode, mentre accogliamo l’invito dell’apostolo Pietro: "Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi" (1Pt 3,15).
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