Catechismo degli Adulti
1. Saper morire
La morte nella nostra cultura
[1185] Da sempre la morte è guardata con rispetto e timore, perché radicalmente contraria all’istinto di conservazione. Oggi, come fenomeno generale, è oggetto di attenzione e di curiosità; a volte la si banalizza, mostrandola crudamente per televisione. Si evita invece come un tabù il discorso sulla propria morte e quindi anche la domanda sul senso della propria vita. Come se non ci riguardasse da vicino!
Quanto all’aldilà, circolano molti dubbi. Nel nostro paese numerose persone, pur credendo in Dio, dichiarano di non credere nella sopravvivenza, nella risurrezione, nel paradiso, nell’inferno. Ci si preoccupa più della sofferenza, che di solito precede la morte, che non delle realtà che vengono dopo di essa. Si considera addirittura preferibile una morte improvvisa, non consapevole. Invece il vero cristiano desidera innanzitutto rendere preziosa la propria morte.
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Apparente fallimento
[1186]
Ma ha un senso la morte, o meglio l’uomo che muore? All’apparenza sembrerebbe di no. L’uomo è tutto un desiderio di vivere e con tutto se stesso rifiuta la morte, ma essa si avvicina inesorabile. La caducità ci appartiene per natura. In un certo senso si comincia a morire quando si comincia a vivere, e si finisce di morire quando si finisce di vivere: le cellule dell’organismo si invecchiano, si perdono e non tutte vengono reintegrate; le esperienze personali si consumano in fretta. «L’uomo, nato di donna, breve di giorni e sazio di inquietudine, come un fiore spunta e avvizzisce, fugge come l’ombra e mai si ferma» (Gb 14,1-2). Prima o poi, improvvisa o preceduta da intensa sofferenza, arriva la morte. La persona sembra svanire nel nulla. Il desiderio insopprimibile di vivere sembra votato al fallimento. Di qui senso di smarrimento e di impotenza, angoscia. «Sono prigioniero senza scampo; si consumano i miei occhi nel patire» (Sal 88,9-10).
| CdA, 13-15 CONFRONTAVAI |
Conseguenza del peccato
[1187]
Anche se la caducità è naturale, la morte, vissuta come solitudine angosciosa e impotente, non rientra nel disegno della creazione: «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi» (Sap 1,13). Appartiene invece alla condizione storica dell’umanità peccatrice, alienata dalla originaria comunione con Dio: «il peccato è entrato nel mondo e con il peccato la morte» (Rm 5,12). Da qui derivano il suo carattere di violenza e di minaccia, il suo pungiglione velenoso
| CdA, 373-374 CONFRONTAVAI |
La morte di Gesù
[1188]
Gesù, pur essendo senza peccato, ha preso su di sé la comune condizione umana. Ha provato «paura e angoscia» (Mc 14,33), «con forti grida e lacrime» (Eb 5,7). Ma si è abbandonato con fiducia alla volontà del Padre, ha offerto tutto se stesso per il bene degli uomini. Ha fatto del suo morire un atto personale pieno di senso. La risurrezione ha rivelato la fecondità della sua dedizione e ha dato solido fondamento alla speranza dei credenti. La sua testimonianza li provoca a seguirlo, fiduciosi nel Padre onnipotente e misericordioso, pieni di amore per i fratelli, pronti a credere nella vita fin dentro le tenebre della morte
| CdA, 237-239 CONFRONTAVAI |
La morte del cristiano
[1189]
Il cristiano teme la morte come tutti gli uomini, come Gesù stesso. La fede non lo libera dalla condizione mortale. Tuttavia sa di non essere più solo. Obbediente all’ultima chiamata del Padre, associato a Cristo crocifisso e risorto, confortato dallo Spirito Santo, può vincere l’angoscia, a volte perfino cambiarla in gioia. Può esclamare con l’apostolo Paolo: «La morte è stata ingoiata per la vittoria. Dov’è, o morte, la tua vittoria?» (1Cor 15,54-55). Allora la morte assume il significato di un supremo atto di fiducia nella vita e di amore a Dio e a tutti gli uomini.
Il morente è una persona e il morire un atto personale, non solo un fatto biologico. Esige soprattutto una compagnia amica, il sostegno dell’altrui fede, speranza e carità. L’ambiente più idoneo per morire, come per nascere, è la famiglia, non l’ospedale o l’ospizio.
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